Non si vedono tanti western a Hollywood e dintorni negli ultimi tempi. Perché? Forse perché il western, purtroppo, appare un genere datato, per un pubblico troppo “vecchio” e ristretto. O forse perché il western è un genere che ha sempre veicolato valori certi, rappresentati entro una cornice certa fatta di paesaggi mozzafiato, eroi positivi e spesso sconfitti ma che conoscono il sapore della sangue e della morte; cattivi spietati eppure non privi, spesso, di un’umanità. Insomma il western sembra appartenere al passato e anche le parole guida del western – l’amicizia virile, l’eroismo, il sacrificio, la famiglia, la casa, il senso dell’onore, l’immagine della moglie che aspetta in silenzio il cavaliere – sembrano parole e immagini vecchie e datate in un immaginario moderno dove la violenza è spesso fine a se stessa e si fatica a distinguere il bene dal male. Così il western è morto, o meglio si è lasciato morire: c’è anche una data precisa di questo evento luttuoso. Il 1992, anno dell’uscita di uno dei più grandi western di tutti i tempi, Gli spietaticon cui Clint Eastwood, oltre a vincere i suoi primi Oscar, pose la pietra tombale a un genere che forse aveva ancora molto da dire ma non aveva più padri. Si sono visti una manciata di western dal 1992 in avanti, per lo più di bassa qualità con una grande eccezione, quel Terra di confine di e con Kevin Costner con cui il regista di Balla coi lupirievocava nostalgicamente un mondo ormai perduto.
Ora, a qualche decennio di distanza dall’originale di Delmer Daves, arriva il remake Quel treno per Yuma di James Mangold, regista intelligente anche se incostante. Dall’esordio notevole di Dolly’s Restaurant e soprattutto Copland in cui Mangold raccontava la vicenda in un poliziotto del New Jersey sordo e appesantito dall’età (un grande Sylvester Stallone) che indagava su una storia di polizia e corruzione – una sorta di western metropolitano con tanto di sacrifici, eroismi e sconfitte – il regista si è un po’ perso per strada. Un paio di buoni film ma poco incisivi (il dramma Ragazze interrotte e la commedia Kate e Leopold) prima di un discreto film di genere (Identità) e di un buon biopic (Quando l’amore brucia l’anima). Ora Quel treno per Yuma, un classico del cinema western, una sorta di melodramma virile con protagonisti due uomini che avrebbero potuto essere amici se solo un destino beffardo non si fosse messo di mezzo. Le premesse per un buon film c’erano tutte; un cast di attori in gamba e di indubbio fascino, l’esperienza di Mangold dietro la macchina da presa, la forza di un classico con cui confrontarsi. Il risultato è solo un remake discreto, barocco nello stile e lontano dallo stile secco e sobrio dallo stile di Daves. Anzi, Mangold sembra privilegiare più l’introspezione psicologica all’azione reale, con alcune attualizzazioni un po’ forzate e comunque a senso unico (lo sfruttamento degli operai cinesi, le torture che assomigliano tanto agli eccessi di Abu Grahib). Peccato per questo rigurgito ideologico, sarebbe bastata la riproposizione secca di un grande western quasi dimenticato.
