Cult clamoroso di Michael Powell, uscito nel 1960 e praticamente non visto per parecchi anni salvo essere poi recuperato dalla cinefili a militante. È un film profondamente morboso, quasi malato tutto giocato sull’occhio piuttosto che sullo sguardo (come ben sottolinea la sequenza d’apertura). Il plot è semplicissimo: un cineoperatore passa il tempo a riprendere con la macchina da presa squarci di vita vera comprese le varie donne che ucciderà innestano una lama proprio all’interno della cinepresa. Potrà quindi riprendere la morte al lavoro e al tempo stesso costringerà le proprie vittime a guardarsi in una sorta di specchio deformato che pone proprio sulla camera. Visto al cinema in una retrospettiva memorabile al Bergamo Film Meeting, fu un’esperienza sconvolgente allora e lo è ancora oggi. Powell, uscendo tra l’altro in una data chiave (il 1960 di Psyco) pone l’asticella ben al di là del voyeurismo ambiguo di Hitchcock. Qui l’occhio è veicolo di morte e al tempo stesso strumento di seduzione, persuasione, convincimento. È davvero un film disturbante, perché l’occhio dello spettatore coincide con quello del carnefice (a sua volta vittima per vicende passate): non c’è pietà, zero autocommiserazione, soltanto la cruda cronaca morbosa di una discesa agli inferi ad occhi spalancati verso il baratro.
