My Marlboro City

Continua la piccola retrospettiva che Sentieri dedica alla giovane e brava documentarista pugliese Valentina Pedicini. Dopo il bel, intenso doc Faith sui monaci cristiani Shaolin, la nostra collaboratrice Letizia Panesa ci parla di un altro documentario, uscito nel 2009, e ambientato nella città d’origine della regista, Brindisi.

Fa uno strano effetto vedere un documentario immersivo come My Marlboro City. Pieno di affetti vibranti, sia a partire dal titolo ma anche seguendo la voce fuori campo che apre e conclude il film, voce della stessa regista: un effetto strano per chi, come la sottoscritta, dal profondo Sud è scappata, in cerca di lavoro, prospettive, magari una famiglia. Un po’ come – ce lo immaginiamo – proprio la Pedicini che non nasconde mai questo doppio sguardo sulla sua città, materna e matrigna, carica di contraddizione, empatia e dolore. Lo sguardo della regista che anni dopo arriverà con Faith a girare il suo capolavoro è uno sguardo carico di affetto e nostalgia: segue da vicino un gruppo di ragazzi alla ricerca (disperata) di affetti, entra nell’intimo di un uomo che lavora in una scuola come bidello e la sera ritorna in carcere dove sta scontando, immaginiamo, una pena molto lunga. E soprattutto, riprende da vicino la sua amata città, cupa, deserta, fatta di palazzoni grigi ma anche di un mare da cui “è difficile allontanarsi”. Un documentario dalla doppia valenza e, significativamente, tutto centrato su volti, corpi, correlativi oggettivi di una moderna epica o semplicemente maschera tragica e definitiva di un’archeologia industriale che, al pari dell’assenza (strategica?) dello Stato, ha lasciato solo macerie e disperazione.