West Side Story

Forse il più grande flop di Steven Spielberg: in effetti il film ha qualche problema (l’eccessiva lunghezza, un calligrafismo che sfiora la maniera), eppure Spielberg, come sempre, dimostra di sapere il fatto suo. Innanzitutto, il senso dell’operazione va sia in orizzontale che in verticale, per dire così. In senso diacronico, l’adattamento è, in modo evidente, un grande omaggio sia stilistico (i titoli di testa che richiamano i titoli del grande Saul Bass nel film originale) sia, formale. Movimenti di macchina essenziali, a rendere la fluidità dei movimenti degli attori e la plasticità delle coreografie, senza mai però cadere nella trappola dello spettacolo fine a se stesso, o del virtuosismo tecnico. E poi c’è il grande e sincero moto di affetto di Spielberg verso il cinema classico e hollywoodiano, con tanti mestieranti sugli scudi, capaci di girare qualsiasi cosa e di qualsiasi genere, proprio come Robert Wise, regista del West Side Story del 1961 (assieme al grande coreografo Jerome Robbins) e capace, anni dopo, di dare il via anche al primo lungometraggio di Star Trek. Spielberg ha in mente questo cinema, con evidenza: la tecnica e lo sguardo registico invisibili e nascosti, il tocco di umanità che riesce a conferire ai vari personaggi, anche a quello minori, come il bell’omaggio a Rita Moreno che cita se stessa in un salto del tempo lungo sei decenni. Non tutto funziona, come già detto: la trasposizione è sin troppo fedele al testo di partenza e le performance debolucce di certi interpreti (soprattutto Ansel Elgort) rischiano di far passare in secondo piano i momenti migliori – quelli musicali e cantati con la splendida Ariana DeBose o i tanti riferimenti ai mélò di Sirk.